Allarme clima

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Oltre diecimila scienziati in allarme “non c’è più tempo per salvare il pianeta”
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Se non si pone fine ai roghi e al diboscamento in corso in Amazzonia, il collasso della foresta pluviale potrebbe essere imminente, con tragiche ricadute su buona parte del pianeta.
Ma il focus non è più limitato al polmone brasiliano, anche la zona del Mediterraneo inizia a destare preoccupazioni.
Oltre diecimila scienziati sono in allarme e insieme gridano al mondo che non c’è più tempo per salvare il pianeta.
Un pensiero che fa paura ma che è quanto di più realistico sia mai stato detto in tema di cambiamenti climatici.
Forse ci stiamo abituando con troppa facilità alle notizie che sentiamo o forse l’allarmismo non spaventa più ma numeri e fatti raccontano una verità diversa. È importante fare un passo indietro e avere ben chiaro che con il concetto di cambiamento climatico si indicano tutte le mutazioni del clima della Terra, ovvero variazioni a diverse scale spaziali e storico-temporali di uno o più parametri ambientali e climatici nei loro valori medi: temperature (media, massima e minima), precipitazioni, nuvolosità, temperature degli oceani, distribuzione e sviluppo di piante e animali.  Una volta chiarito questo, si capisce quanto i valori attuali, riportati da studiosi e scienziati, non siano più in linea con i parametri medi riportati fino alla metà del secolo scorso.
Perché se le tragedie le vediamo adesso, le “micce” erano state colte a partire dagli anni Settanta, quando già nel 1979, la National Academy of Sciences degli Stati Uniti iniziava a pubblicare i risultati dei primi studi ad hoc su anidride carbonica e clima. Dopo i devastanti incendi che hanno distrutto l’Amazzonia e oscurato San Paolo lo scorso agosto, il mondo non è rimasto insensibile alle immagini che giravano nel web, facendo seriamente preoccupare anche chi, fino a quel momento, non aveva percepito la gravità della situazione. La foresta amazzonica ha bruciato per giorni e le cause scatenanti sono state attribuite all’uomo.

La stessa NASA spiega che spesso agricoltori o allevatori danno fuoco per meglio gestire i propri campi o i pascoli o per ripulire il terreno. Poi c’è il disboscamento finalizzato alla raccolta della legna e quello che ha come unico scopo l’allargamento delle aree coltivabili, spesso destinate alla soia. Il tasso di deforestazione nell’Amazzonia brasiliana è cresciuto negli ultimi anni e sotto il governo dell’attuale presidente Bolsanaro è previsto che aumenti ulteriormente. Ma se nell’immediato le prime preoccupazioni legate ai roghi in Amazzonia riguardano le ricadute e le minacce per la popolazione e la fauna selvatica, sul lungo termine a destare le maggiori paure sono le conseguenze che una perdita di così vaste coperture arboree potrà avere sul clima, finendo per aggravare e accelerare il riscaldamento globale.
Il 2019 è stato un anno nero per l’Amazzonia. Fino a pochi anni fa gli incendi erano limitati proprio grazie all’umidità che caratterizzava quell’area geografica, ma le ondate di siccità che hanno colpito la foresta sempre più spesso l’hanno privata di quella protezione umida che la proteggeva naturalmente.
Le colpe? Sempre antropologiche. Queste ondate di siccità sono collegate a un aumento della deforestazione nella regione e al cambiamento climatico innescato dall’uomo. In parole semplici si è entrati in un circolo vizioso dal quale è molto difficile uscire.
Previsioni di diversi esperti dicono che si potrebbe giungere molto presto a un punto di non ritorno in grado di trasformare l’Amazzonia in una savana arida e secca. Un danno per tutto il pianeta perché quello dell’Amazzonia è un ecosistema in grado di catturare milioni di tonnellate di anidride carbonica ogni anno con evidenti conseguenze catastrofiche se questo “polmone” verde collassasse.

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